Di seguito all’articolo L’UOMO BIANCO – DALL’IMMAGINE AL TESTO NARRATIVO (clicca) ho scritto una possibile conclusione del racconto.
Presi una decisione. Volevo andare a vedere da vicino che cosa stesse succedendo, così indossai il primo maglione che mi capitò a tiro, attesi che mia madre fosse di spalle e sgattaiolai fuori dalla porta, sul pianerottolo. Tutto il palazzo era avvolto nel buio e per la prima volta mi accorsi di quanto può fare paura il silenzio. Iniziai a scendere le scale accendendo la luce che si spegneva di tanto in tanto. Ma giunto al portone d’ingresso ebbi un attimo di esitazione: forse stavo per cacciarmi nei guai. La mia curiosità mi spinse comunque fuori, nella notte. Presi per un vicolo scuro ma mi sentivo al coperto e strisciavo lungo i muri dei palazzi abbassandomi ogni volta che da una finestra trapelava la luce. Raggiunsi velocemente il viale. I due erano di spalle. Si trovavano a poca distanza da me ed ora anche l’uomo in nero si mostrava chiaramente alla mia vista: era un tipo alto quasi due metri. Il pastrano ampio lo copriva fino alle ginocchia, aveva pantaloni che si allargavano sugli stivali massicci e neri come tutto il resto. Cercai una strada che mi conducesse davanti ai due, a questo punto dovevo vederli in faccia. Trovai la soluzione imboccando lo stretto passaggio che divideva due lunghi caseggiati verdi affacciati sulla piazza. Finalmente mi trovavo davanti a loro, seminascosto da un bidone della spazzatura. L’uomo nero aveva la barba lunga fino al primo bottone del soprabito, un ciuffo di capelli castani fuoriusciva da sotto il cappello. Guardava avanti e indossava degli occhialetti dalla lente sottile e squadrata. L’altro era impressionante: aveva lunghissime sopracciglia che arrivavano fin quasi alle basette, gli occhi scuri e socchiusi, il naso e il mento prominenti, le labbra sottili e contratte per sorreggere la pipa gialla. Il colletto della giacca era sollevato a coprire il lungo ed esile collo, parzialmente avvolto da un foulard rosso allacciato a mo’ di cravatta. Aveva un incarnato olivastro, un aspetto vagamente indiano. Indossava pantaloni leggermente larghi sulle cosce, più stretti sui polpacci. Gli stivali, esageratamente lunghi, finivano a punta e coprivano le caviglie. L’uomo in basso ridacchiava e farfugliava parole a me incomprensibili. Ora l’altro chinava maggiormente il capo per sentirle e fu chiaro che i due si conoscevano eccome. Stavano venendo dalla mia parte ma ero certo che l’uomo bianco non sarebbe mai potuto entrare nel viottolo dove mi ero nascosto. Invece mi sbagliavo, il gigante era capace di assottigliarsi come una lama di coltello. Adesso sì che ero nei guai! Per non alzarmi e non farmi vedere, iniziai a rotolare nel tentativo di tornare da dove ero venuto. I passi del mostro si sentivano ancora più forti ed io avevo il cuore in gola. Urtai contro la parete di una casa, iniziai ad urlare, e… quando aprii gli occhi mi accorsi che stavo piangendo; davanti a me la televisione era accesa sulla sigla di un film. Mia madre non era rincasata. Mia sorella accorse dalla sua stanza avendo udito il mio grido. Era stato un brutto sogno!