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ITALIANO – LETTURA E COMPRENSIONE

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VI propongo una serie di letture cui sono allegati esercizi di comprensione on line.

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Brano tratto da “Il segreto di Cagliostro” di Angela Nanetti – Giunti Junior

Dietro la porticina c’è un ingresso buio, illuminato solamente da una piccola finestra ricoperta di ragnatele grandi come tende.

E subito dopo una scala a chiocciola stretta stretta, che sale verso l’alto nell’oscurità più completa e dopo cinquanta scalini arriva davanti a un pianerottolo. Qui c’è una grande porta, con un battente di ottone che ha la forma di una testa di Medusa, piena di serpenti che sembrano veri, e davanti a questa porta l’uomo misterioso si ferma. Tira il fiato, si ripulisce gli occhiali e li rimette sul naso, poi prende il battente, lo solleva, e lo lascia ricadere tre volte.

Pong!!… Pong!!.. Pong!! fa il battente e al terzo suono si sente dietro la porta una voce.

“Chi è?”

“Sibilus…”

Un rumore di chiavistello e la porta lentamente si apre.

“Ti ho detto tante volte di non venire da me di giorno” dice l’uomo che sta dietro la porta.”Ti ha visto qualcuno?”

“Nessuno, signor barone, non si preoccupi. Ho incontrato solo una bambina”.

“Ah” fa il barone e s’incammina lungo un corridoio, tra quadri e tende di velluto scuro, che sembrano fatte apposta per mettere paura, ma che non impressionano per niente Sibilus e il barone. Alla fine del corridoio un’altra porticina, nascosta dietro una di queste tende e al di là, una stanza illuminata a giorno, con due tavoli bianchi e pulitissimi pieni di provette, alambicchi e strani aggeggi e alle pareti armadietti di vetro con animali imbalsamati, vasi e barattoli, bilancine e piccoli fornelli,  e ancora alambicchi e cose strane. Insomma, un laboratorio in piena regola.

E sulla parete più grande della stanza il manifesto di una donna bellissima con la scritta: “Ecco il segreto dell’eterna giovinezza”.

Il barone, che indossa un camice bianco e ha sul naso un paio di occhialini dalla montatura d’oro, si siede nell’unica poltrona della stanza, incrocia le gambe lunghissime, prende una sigaretta da un astuccio d’oro e se l’accende, poi getta uno sbuffo di fumo verso Sibilus, dritto e silenzioso.

“Allora dov’è” chiede, e allunga la mano. La mano del barone è giallastra e secca, ha le unghie curate ma lunghe e un po’ ricurve, come quelle di un avvoltoio.

Sibilus si toglie il berretto e si schiarisce la voce: “Ce l’ho signor barone, ma non è qui…”

………………………..

“Domani stesso andrò in biblioteca, da quella brava bibliotecaria, e facendo finta di essere un papà premuroso chiederò quel libro per il mio bambino malato, e domani sera…”conclude con una strizzata d’occhi “domani sera, appena buio, lei avrà le sue pagine, signor barone, o smetto di fare il ladro!”.

La faccia di Sibilus è così solenne, anche con gli occhiali scuri, che il barone ne rimane impressionato. Le sue mani si fermano, il colore rosso lentamente sparisce e finalmente si rilassa. 

PER SCARICARE E LEGGERE IL BRANO IN FORMATO PDF CLICCA QUI

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documento1

I padri e le madri sono tipi strani: anche se il figlio è il più orribile moccioso che si possa immaginare, sono convinti che si tratti di un bambino stupendo. Niente di male: il mondo è fatto così. Ma quando dei genitori cominciano a spiegarci che il loro orrendo pargolo è un autentico genio, viene proprio da urlare: – Presto, una bacinella! Ho una nausea tremenda! Pensate alle sofferenze degli insegnanti, costretti a sorbirsi le stupide vanterie di genitori orgogliosi; per fortuna possono vendicarsi al momento delle pagelle. Se fossi un insegnante, mi prenderei il gusto di qualche bella nota pungente. – Il vostro Massimiliano – scriverei, – è un totale disastro. Spero per voi che abbiate un’azienda di famiglia dove sistemarlo dopo gli studi, perché non riuscirebbe a trovare lavoro da nessun’altra parte. 

Oppure, se quel giorno fossi in preda a un estro poetico: – Strano ma vero: le cavallette hanno gli organi dell’udito ai lati dall’addome. Vostra figlia Vanessa, a giudicare da quel che ha imparato questo trimestre, non li ha da nessuna parte.

Risultati immagini per Matilde roald dahl illustrazioni blake

 

Ogni tanto capita di incontrare dei genitori che adottano l’atteggiamento opposto, e non manifestano alcun interesse per i propri figli (il che è molto peggio di quelli che stravedono per loro). Il signore e la signora Dalverme appartenevano alla seconda categoria. Avevano un figlio di nome Michele e una figlia di nome Matilde, e nutrivano per quest’ultima la stessa considerazione che si ha per una crosta, cioè per qualcosa che si è costretti a sopportare fino al momento in cui la si può grattar via, eliminandola con un colpetto delle dita. Il signore e la signora Dalverme non vedevano l’ora di levarsi allo stesso modo di torno la loro bambina, magari spedendola con un colpetto in qualche nazione vicina (o, meglio ancora, lontana). Non è carino che i genitori trattino dei figli comuni come croste o calli, ma è ancora peggio se il bambino in questione è fuori dal comune, ossia geniale e sensibile. E Matilde era entrambe le cose. Soprattutto, possedeva una mente così brillante e vivace, e imparava così in fretta, che le sue capacità avrebbero dovuto risultare evidenti anche per i genitori più tonti.

Il signore e la signora Dalverme, però, erano così idioti e così chiusi nelle loro piccole, meschine abitudini, da non accorgersi che la bambina era assolutamente eccezionale. Anzi, se si fosse trascinata a casa con una gamba rotta, è probabile che non se ne sarebbero accorti. (….)

A diciotto mesi parlava correntemente e conosceva altrettante parole della maggior parte degli adulti. Ma i suoi genitori, invece di lodarla, le dicevano che era una fastidiosa chiacchierona e aggiunsero seccamente che le brave bambine non dovrebbero farsi né vedere né sentire.

A tre anni Matilde aveva imparato a leggere da sola, grazie ai giornali e alle riviste sparsi per casa. A quattro anni leggeva speditamente e cominciava ad avere una gran voglia di libri , perché in quella casa geniale, di libri ce n’era uno solo, intitolato Cucinare è facile, che apparteneva a sua madre. Dopo averlo letto da cima a fondo, imparando a memoria tutte le ricette, Matilde decise di cercare letture più interessanti.

“Papà, mi compreresti un libro?”

“Un libro? E per che cavolo farci?”

“Per leggerlo”.

“Diavolo, ma che cosa non va con la tele? Abbiamo una stupenda tele a ventiquattro pollici e vieni a chiedermi un libro! Sei viziata, ragazza mia!”

Quasi ogni giorno Matilde restava sola in casa per tutto il pomeriggio. Il fratello, che aveva cinque anni più di lei, andava a scuola, e il padre al lavoro. Sua madre, invece, andava in città (lontana una dozzina di chilometri) a giocare a bingo. La signora Dalverme era maniaca del bingo, e ci giocava cinque pomeriggi alla settimana. Il giorno in cui suo padre rifiutò di comprarle un libro, Matilde andò a piedi fino alla biblioteca pubblica del paese, da sola. Appena arrivata si rivolse alla bibliotecaria, la signora Felpa, e chiese se poteva sedersi un po’ a leggere. La signora Felpa, piuttosto stupita di vedere una bambina così piccola non accompagnata da un genitore, le rispose che era la benvenuta. “Per favore, dove sono i libri per bambini?” chiese Matilde. “Lì, sugli scaffali più bassi. Vuoi che ti aiuti a trovare un bel libro con tante illustrazioni?”. “No grazie” disse Matilde “Posso fare da sola”

Da quel giorno, appena sua madre usciva, Matilde faceva una passeggiatina fino alla biblioteca. Ci metteva solo dieci minuti e poi, trascorreva due ore meravigliose in un angolo accogliente e quieto, divorando un libro dopo l’altro. Dopo aver letto tutti i libri per bambini, cominciò a guardarsi intorno in cerca di qualcosa di diverso.

La signora Felpa, che in quelle poche settimane l’aveva osservata incuriosita lasciò la sua scrivania e le si avvicinò.”Posso aiutarti, Matilde?”. “Mi chiedevo che potrei leggere adesso. Ho finito i libri per bambini”. “Vuoi dire che hai guardato tutte le figure?” “Certo, ma ho anche letto le storie”.

La signora Felpa, alta e imponente, abbassò lo sguardo su Matilde, che a sua volta alzò gli occhi. “Certi non valevano niente” disse Matilde. “Altri invece erano bellissimi. Più di tutti mi è piaciuto Il giardino segreto. Era pieno di misteri: quello della stanza dietro la porta chiusa, e quello del giardino dietro il muro”. La signora Felpa era sbalordita. “Ma quanti anni hai esattamente?”

“Quattro anni e tre mesi”.

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IL VIAGGIO DI INES

Caro don Gaetano,

dovete sapere che la vita sulla nave è durissima. Ci siamo dovute separare da papà, io e la mamma, perché ci sono le stanze dei maschi e quelle delle femmine. Siamo in una grande camerata dove ho contato almeno trenta persone sui letti a castello. Appiccicati come le sardine in scatola. Senza bagni, acqua, elettricità. I pasti non sono granché e poi sono scarsi. I posti a a tavola non ci sono per tutti perché i marinai della nave dicono che siamo in troppi. Allora perché imbarcano tanta gente? La mamma dice che così fanno un sacco di soldi. Tanto la richiesta non manca. Per mangiare si devono fare due turni e bisogna lottare per sedersi ai tavoli. E dopo mangiato? Qui viene il bello! Si va ore e ore sul ponte a prendere freddo: meno male che la zia Giovanna l’aveva detto alla mamma e lei si è portata tre coperte. Per dormire bisogna scendere nei dormitori, dove niente resta un segreto per nessuno. Sento tutto quello che fanno gli altri, chi litiga, chi piange, chi sospira. La mamma dice che alla fine del viaggio ognuno saprà vita, morte e miracoli dell’altro. Ieri sera io e mio padre ci siamo affacciati in prima classe ma gli inservienti ci hanno subito cacciati. Hanno capito che eravamo di terza classe, papà dice che si vede immediatamente da come siamo vestiti. Quelli di prima classe hanno gli abiti di seta, senza le toppe e i bottoni persi. Un giorno un marinaio ci ha detto che i passeggeri di prima classe non vogliono nemmeno vedere come siamo fatti noi di terza. -Sapete cosa pensano? – ha detto. – Che siete sporchi e puzzate. E poi sono convinti che voi mangiate con le mani come gli animali.

Caro don Gaetano, spero che non siano persone di prima classe gli argentini.

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Leggi anche:

STORIA DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA

MIGRANTI IN AMERICA

Leggi la poesia:

ADDIO

Mi volto e la mia casa si allontana,

scompare a poco a poco la mia terra

al passo lento della carovana,

al passo indemoniato della guerra. 

E dico addio agli amici, alla mia gente,

agli alberi che incontro nel cammino,

nel sacco quattro stracci e poco o niente,

nel pugno della mano un sassolino.

E dico addio al vento e alla sua danza

mentre la notte si sorseggia il giorno:

nel cuore una promessa di speranza,

 negli occhi il desiderio del ritorno.

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Fino alle cinque del pomeriggio la casa rimaneva vuota. Mela e il Muschioso tornavano a uscire. La Spepa andava ad appiccicare il naso alle vetrine. Il Cane restava solo. Meglio. Almeno non dava fastidio a nessuno. E poteva riflettere. Il silenzio gli era d’aiuto. Pensava. L’atteggiamento di Spepa e del Muschioso nei suoi confronti non lo stupiva: quei due non lo avevano mai amato.

Ma Mela? Mela?… Come aveva potuto amarlo e poi smettere di colpo, così, senza ragione? Che cosa aveva fatto lui per provocare quel brutto cambiamento? Niente. Che strana padrona… Com’erano imprevedibili, gli esseri umani!

Era triste, eccome. Ma attraverso la tristezza si faceva strada un altro sentimento: la vergogna. La vergogna e l’ira verso se stesso: non aveva saputo ammaestrare Mela, ecco la verità! Muso Nero si sarebbe molto arrabbiata con lui. Lei lo aveva mandato in città non solo per trovare una padrona, ma anche per ammaestrarla. E lui aveva fallito. Si era fatto coccolare da Mela come un bambino viziato, finché il capriccio della padroncina era durato. E non appena lei si era disinteressata di lui, non aveva più saputo cosa fare. Ma come si fa ad ammaestrare qualcuno che neanche ti vede?

Le idee gli turbinavano nella testa fino a che non sapeva più cosa pensare. Allora, quando si sentiva completamente perduto, si ricordava della frase del Lanoso a proposito della padrona che lo aveva abbandonato: “A che servirebbe seguirla? Visto che lei non voleva più saperne di me, a che sarebbe servito?” E poi il Nasale aveva parlato di “dignità”… Il Cane cominciava a farsi un’idea di che cosa potesse essere la “dignità”. In fondo, Mela lo aveva abbandonato. Proprio come la padrona del Lanoso. E lui rimaneva lì ad aspettare. Aspettare che cosa? Che l’amore di Mela tornasse, come per magia? Che stupidaggine!

Non erano piuttosto le comodità e il cibo quotidiano a trattenerlo? Bella dignità, la sua! E pensare che si era vergognato del comportamento del Nasale davanti ai giornalisti… Ma lui, il Cane, si stava comportando forse meglio del Nasale restando in quella casa dove Mela faceva come se lui non esistesse, la Spepa pensava che lui esistesse fin troppo e il Muschioso lo teneva al guinzaglio come se fosse un aquilone?

A forza di riflettere, si finisce per arrivare a una conclusione. A forza di giungere a una conclusione, succede che si prende una decisione. E una volta presa la decisione, succede che si agisce per davvero. Decise di fuggire. E lo fece.

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“STORIA DELLE MIE STORIE” DI BIANCA PITZORNO

LEGGI IL TESTO, POI RISPONDI ALLE DOMANDE E INFINE FAI IL CRUCIVERBA DI PAROLE.

Una bambina molto arrabbiata

I libri hanno avuto nella mia infanzia un ruolo così importante che, se cerco di immaginarli senza di loro, i miei primi anni si riducono a ben poca cosa. Eppure la mia vita non era quella di una piccola ammalata confinata in un letto, alla quale solo le parole e le immagini stampate (in assenza della televisione che ancora non c’era) potevano fornire notizie ed esperienza della realtà. La mia vita era piena di cose ed esperienze concrete, di rapporti affettivi intensi, di sensazioni fisiche di emozioni… Eppure niente di tutto questo aveva per ma un senso, un valore, un punto di riferimento, se non in rapporto ai libri che contemporaneamente andavo leggendo e rileggendo. Esistevo, ma senza i libri non avrei saputo di esistere. […]

Devo a loro la mia sete di giustizia e i due sentimenti forti che hanno sempre guidato (e tormentato) la mia vita: la rabbia e l’indignazione. Rabbia per le ingiustizie che io stessa pativo, indignazione per le ingiustizie che non mi riguardavano, ma che vedevo patire ad altri.

Gli operatori di ingiustizia erano quelli più forti fisicamente, quelli che avevano potere su di noi, e dunque qualche volta i ragazzi più grandi, ma nella maggior parte dei casi degli adulti.

Se ripenso a me stessa in quegli anni, mi torna subito in mente l’acuta consapevolezza della mia poca forza fisica in confronto a quella dei giganti da cui dipendevo per ogni cosa e il fortissimo, bruciante sentimento di impotenza. Non perché i fatti della mia vita fossero particolarmente infelici, o gli adulti che mi circondavano fossero degli aguzzini, che anzi sono cresciuta in una situazione privilegiata sia dal punto di vista economico che da quello affettivo. Ma perché, anche e soprattutto grazie ai libri, ero consapevole del mio valore (e di quello dei miei piccoli coetanei) come persona, come individuo; e dalla incolmabile disparità di forza fisica, emotiva, economica, che ci metteva inesorabilmente alla mercé dei grandi.

I quali non erano tenuti a rispettare nei nostri confronti alcuna legge, ma agivano, anche i meglio intenzionati, secondo il loro arbitrio e capriccio.

“Perché?”

“Perché sì!” “Cosa credi? Qui comando io!” erano le frasi che governavano i nostri rapporti.

E poi, fossero almeno stati conseguenti. Invece tutti gli adulti che conoscevo, senza esclusione, affermavano a voce un sistema di norme e di valori dei quali esigevano da noi il rispetto, ma erano i primi a violarli, quando di nascosto e quando con allegra noncuranza.

Ricordo la mia indignazione di fronte alle promesse non mantenute, ai patti infranti con una risata. Alla raccomandazione: “Non bisogna dire bugie” subito seguita, allo squillo fastidioso del telefono, dall’invito:”Rispondi tu e dì che non ci sono.”

Per non parlare dei poveri. Quante belle prediche! Siamo tutti fratelli”; “Gli uomini sono tutti uguali”; “I più forti devono proteggere i più deboli.” Però sembrava normale che nei paesi i figli dei pastori andassero in campagna col gregge oppure, se femmine, a servizio prima dei dieci anni; che le cameriere dormissero su una branda in cucina e non potessero lavarsi nel nostro bagno; che i mendicanti non venissero invitati a sedersi a tavola ma ottenessero al massimo uno schifoso miscuglio di avanzi versato con condiscendenza nel barattolo col manico di fil di ferro che si portavano dietro; che a scuola i bambini poveri frequentassero classi diverse dalle nostre e che, se per caso qualcuno di loro capitava per sbaglio con noi, ci fosse vietato invitarli a casa per la merenda.

Era fratellanza questa? Era, quello dei grandi, il modello a cui dovevamo tendere? io non volevo diventare come loro. E se crescere voleva dire somigliare agli adulti che mi vedevo attorno, io non volevo crescere. […] Poi naturalmente, visto che uno non può fare a meno di crescere, come controbatteva Alice (ma io, potendo, avrei fatto la stessa scelta di Peter Pan), mi rassegnai. Sempre però rimpiangendo “l’età d’oro” della mia vita. Non perché allora fossi felice. Ma perché ero integra, fiduciosa nella forza degli ideali, piene di speranza che il mondo, anche grazie a me, potesse in un giorno non lontano cambiare.

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CRUCIVERBA DI PAROLE

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NEL MARE DI RIO

Mi chiamo Mathias e sono brasiliano. Sono venuto in Italia da appena due anni, perciò parlo italiano così così, ma mi faccio capire.
Io a Rio stavo meglio che qui, e ci voglio tornare appena posso, perché là ho tutti i miei amici e mio padre e i cugini e i nonni.
L’unica cosa che mi piace della scuola è disegnare, infatti disegno sempre delle grandi farfalle che volano lontano lontano, sopra al mare di Rio.
Ci metto dentro tutti i colori che ho e la prof di arte dice che sono bravo e ho un grande talento.
Le ho chiesto:- Cos’è il talento?
Lei allora mi ha spiegato che ho il disegno dentro che esce facile dalle mia dita. Mi ha chiesto se volevo fare un murales nell’ingresso della scuola e io ho detto subito di sì, e ho fatto bene, perché ho saltato un sacco di ore di italiano e matematica.
Adesso, appena entri a scuola, vedi tante farfalle colorate e un mare che sembra un cielo e anche un prato con i pesci che volano assieme alle farfalle e gli uccelli che nuotano fra le onde. E sotto ho scritto il mio nome, così quando gli altri entrano vedono che sono stato io a colorare la scuola.
Anche la prof di italiano mi ha detto “bravo” e mi ha chiesto di scrivere una poesia che racconta il disegno.
Una mattina ho scritto sul muro anche quella, sempre con il mio nome.

Silvia Golfera, C’è posto per tutti, Einaudi Ragazzi

NEL MARE DI RIO

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STORIE DI BAMBINI VENUTI DA LONTANO

Quando Anne è arrivata nella nostra scuola, è stata inserita subito nella mia classe. Anne è australiana, parla inglese e a me l’inglese piace molto. Perciò ogni tanto, con Anne, mi faccio delle lunghe chiacchierate nella sua lingua.

Dapprima i suoi compagni mi guardavano stupiti e mi chiedevano scandalizzati: “Angelo, come parli?”. Allora ho approfittato della presenza di Anne per insegnare ai bambini delle canzoncine e delle filastrocche inglesi. E’ stato come impadronirsi di un codice segreto, e adesso seguiamo i progressi di Anne, che sta imparando velocemente l’italiano.

E intanto penso a Nicola che l’anno scorso è arrivato dal Venezuela e a Cynthia fuggita con i suoi dal Perù, e con la quale ho dovuto parlare a lungo in spagnolo per tranquillizzarla. Un giorno Cynthia mi chiese: “Maestro, dicono che io sono una extracomunitaria. Che significa?”. Quando glielo spiegai, Cynthia alzò le spalle e disse: “Tutto qui?”.

Già, tutto qui. E penso a quando avevo l’età dei miei alunni “extracomunitari”. Penso ai loro disagi, alle loro paure, al loro coraggio. Li ebbi tutti anch’io quando vissi nei boschi dell’Auvergne, in Francia, e quando imparai a conoscere il cuore e le periferie di Parigi. Allora feci amicizia con bambini che si chiamavano Pablo, Roger, Said, Denise, Eveline. Qualche bambino francese mi prese in giro solo all’inizio. Ma io non ci feci molto caso. Se tra di loro avevano trovato posto spagnoli, algerini e vietnamiti, di sicuro ci sarebbe stato posto anche per un bambino italiano.

E così fu. Insieme esplorammo boschi e caverne, insieme passammo le notti a rabbrividire sotto le stelle. Ogni tanto pensavo al paese che avevo lasciato, alla campagna dov’ero cresciuto, al muschio che avevo colto per abbellire il presepe immenso di mia nonna. Mi piaceva avere ricordi, rivedere con la mente la mia casa, le vie che la circondavano e la folla che le riempiva nei giorni di festa. Ma ero anche contento di conoscere altri volti, altri luoghi, altri orizzonti.

Perciò accolgo sempre volentieri nella mia classe i bambini che arrivano da lontano con la loro lingua e i loro ricordi. Hanno una storia che nessuno potrà rubargli, così come nessuno ha potuto rubare a me la mia.

A. Petrosino, Popotus

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L’INVENTORE DI SOGNI

A Peter piaceva stare da solo, e pensare i suoi pensieri.

Il guaio è che gli adulti si illudono di sapere

cosa succede dentro la testa di un bambino di dieci anni.

Ed è impossibile sapere che cosa una persona pensa,

se quella persona non lo dice.

Tratto da “L’inventore di sogni” Ian McEwan, Einaudi ragazzi

LEGGI IL TESTO E RISPONDI ALLE DOMANDE

Poco dopo il suo decimo compleanno, a Peter venne affidato il delicato incarico di accompagnare a scuola la sorellina Kate, di sette anni. Peter e Kate frequentavano la stessa scuola. Ci voleva un quarto d’ora per raggiungerla a piedi e pochi minuti, con l’autobus. Di solito ci andavano a piedi con il papà che poi proseguiva per il suo ufficio. Adesso però i bambini erano abbastanza grandi da poter andare da soli in autobus, e la responsabilità dell’impresa ricadeva su Peter.  Non erano che due fermate lungo la stessa via, ma a sentire quanto la facevano lunga la mamma e il papà, si sarebbe detto che Peter stava portando Kate al Polo Nord. La sera prima ricevette istruzioni.

Al risveglio gli toccò risentirle tutte. Poi gliene fecero un dettaglio promemoria durante la colazione. E quando i bambini erano ormai sulla porta, la mamma, Viola Fortune, ripassò un’ultima volta le varie fasi dell’operazione.

“Sono tutti convinti che io sia stupido” pensò Peter “Magari è vero”.

Non doveva mai lasciare la manina di Kate. Dovevano prendere posto al piano di sotto dell’autobus; Kate dalla parte del finestrino. Guai se si lasciavano convincere a chiacchierare con degli svitati o dei malintenzionati. Peter avrebbe detto bene al controllore dove doveva farli scendere, senza dimenticare di chiedere per piacere. E non doveva staccare gli occhi dalla strada.

Peter ripeté tutto quanto a sua madre, e si avviò alla fermata con sua sorella. Si tennero per mano lungo tutto il tragitto. Per la verità, non gli dispiaceva l’incarico, perché sua sorella gli stava simpatica. Sperava solo che nessuno dei suoi compagni lo vedesse in giro mano nella mano con una bambina.

Ecco l’autobus. Salirono e presero posto al piano di sotto. Si sentivano ridicoli a tenersi per mano anche stando seduti e poi c’erano degli altri bambini della scuola intorno, perciò si lasciarono liberi.

Peter era piuttosto fiero di sé.  Avrebbe potuto badare a sua sorella dovunque. Kate poteva contare su di lui.

Supponiamo ad esempio che si trovassero da soli in un valico di montagna, di fronte a un branco di lupi affamati, lui avrebbe saputo esattamente come comportarsi. Facendo ben attenzione di non compiere alcun movimento improvviso, avrebbe indietreggiato con Kate fino ad avere le spalle al sicuro contro una parete rocciosa. In quel modo, i lupi non avrebbero potuto circondarli. Ed ecco giunto il momento di tirar fuori di tasca due cose importantissime che per fortuna si era ricordato di prendere: il coltello da caccia e la scatola di fiammiferi. Estrae il coltello dal fodero e lo appoggia a terra fra l’erba, pronto all’uso nel caso i lupi decidessero di attaccare. Si stanno avvicinando, in effetti. Sono così affamati che ululano e perdono bava dalle fauci. Kate intanto singhiozza, ma non è certo adesso che può consolarla. Sa bene di doversi concentrare sul piano d’azione. Proprio ai suoi piedi vede qualche ramoscello e delle foglie morte. Senza perdere un minuto, Peter ne fa un bel mucchietto. I lupi continuano ad avvicinarsi. Non può permettersi di sbagliare mossa. E’ rimasto soltanto un fiammifero dentro la scatola. Si sente già il fiato dei lupi addosso: un odore tremendo di carne marcia. Peter si piega, mette le mani a coppa e accende il fiammifero. Una folata di vento fa vacillare la fiamma, ma lui l’ha avvicinata al mucchio di rami e foglie che a una a una prendono fuoco, fino a trasformarsi in un discreto falò. Peter non smette di alimentarlo con altri rametti e legni anche più grossi. Kate sta incominciando a capire e lo aiuta. I lupi indietreggiano. Gli animali selvatici hanno terrore del fuoco. Le fiamme guizzano sempre più in alto trasportando il fumo proprio dentro le fauci bavose dei lupi. Adesso Peter affera il coltello da caccia e…

Ridicolo! Erano fantasticherie come questa che potevano fargli scordare la fermata se non stava attento. L’autobus si era fermato. I bambini della scuola stavano già incominciando a scendere. Peter scattò in piedi e fece giusto in tempo a saltare a terra, che già l’autobus era ripartito. Fu solo una buona ventina di metri dopo che si rese conto di aver dimenticato qualcosa. La cartella, magari. Macché! Sua sorella! L’aveva salvata dai lupi, ma se l’era scordata seduta sul pullman. Per un momento rimase paralizzato. Osservò l’autobus allontanarsi lungo la via. “Torna indietro” sussurrò. “Ti prego.” Uno dei bambini della scuola gli si avvicinò e battendogli sulla schiena gli disse”Ehi, che ti prende? Hai visto un fantasma per caso?”

La voce di Peter sembrò venire da molto lontano. “Oh, niente, niente. Ho dimenticato una cosa sull’autobus.”

E poi si mise a correre . L’autobus era già trecento metri oltre e stava incominciando a rallentare per la fermata successiva. Peter accelerò la corsa. Correva tanto veloce che se avesse aperto le braccia, probabilmente si sarebbe alzato in volo. Allora avrebbe potuto sfiorare la cima degli alberi e…

Ma no! Non poteva davvero permettersi altri sogni a occhi aperti adesso. Doveva solo recuperare sua sorella. Magari la poverina stava già strillando in preda al terrore. Alcuni passeggeri erano scesi, e l’autobus stava già ripartendo. Peter era più vicino questa volta. Il veicolo arrancava dietro un camion. Se solo fosse riuscito a correre, senza badare al terribile dolore alle gambe e alla fitta al petto, l’avrebbe raggiunto. Quando arrivò alla fermata, l’autobus era a una cinquantina di metri appena da lui. “Più in fretta, più in fretta” si ripeté. Un bambino che stava sotto la tettoia della fermata, vedendolo passare gli gridò “Peter, ehi Peter!”

Peter non ebbe neppure la forza di voltare la testa. Ansimando, continuò a correre.

“Peter! Fermati. Sono io, Kate!”

Mettendosi una mano sul petto, Peter crollò a terra sull’erba, ai piedi di sua sorella.

“Attento! Non vedi che c’è una cacca di cane?” disse lei tranquilla vedendo il fratello che cercava di riprendere fiato. “Dai, su. E’ meglio che torniamo, se no faremo tardi. E dammi la mano, se non vuoi cacciarti in qualche altro guaio”.

RISPONDI ALLE DOMANDE

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Non era facile, dopo tre anni e mezzo di carriera scolastica all’insegna dell’obbedienza, della gentilezza e della buona educazione, trasformarsi all’improvviso in una scolara insubordinata e ribelle.
Tanto più che la natura aveva fornito Elisa di un’indole mite, affettuosa e accomodante, molto diversa da quella polveriera sempre sul punto di scoppiare che era il carattere di Prisca.
Per comportarsi male bisognava dunque fare un programma dettagliato, stabilire delle regole e applicarle con la massima determinazione.
Non era consentito distrarsi neppure un istante.
Prisca, entusiasta all’idea della carneficina, aiutò l’amica a escogitare le cose più tremende, quelle che, a loro avviso, dovevano per forza fare uscire dai gangheri la maestra.
Ma qualsiasi nefandezza, compiuta da Elisa, si trasformava in un incidente di poco conto.
Fare scena muta a un’interrogazione, consegnare un compito sbagliato, e scritto per giunta su un foglio con le orecchie e pieno di ditate…
Mettersi con ostentazione le dita nel naso, grattarsi, rovesciare il calamaio sul libro di lettura…
Una sola di queste mancanze compiute non da Iolanda o da Adelaide, ma da uno qualsiasi dei Conigli (che non fossero Marcella e Rosalba, che però non si erano mai azzardate a fare qualcosa di simile) provocava uno scoppio d’ira, una violenta ramanzina e almeno cinque colpi di righello.
Elisa in soli tre giorni fece tutto questo, ed anche di peggio.
La maestra urlava, la minacciava, la guardava con occhi feroci, le mise anche una nota di biasimo (una sola), ma l’unico risultato concreto fu una letterina cortese alla nonna Lucrezia.
“La bambina negli ultimi tempi è stanca e svogliata. Forse ha bisogno di qualche giorno di vacanza e di un buon ricostituente”.
La nonna Lucrezia portò la lettera allo zio Leopoldo.
– Cos’è questa storia? E perché scrive a me, quando sa benissimo che Elisa vive con voi? A me sembra che Elisa sia in perfetta forma. La signora Sforza farebbe meglio a insegnarle le tabelline e a lasciar fare diagnosi e prescrizioni a noi medici -.rise lo zio Leopoldo.
Il giorno dopo, dietro suggerimento di Rosalba, Elisa si alzò in piedi nel bel mezzo di una lezione, si sfilò la scarpa destra e la scagliò contro la finestra.
La scarpa colpì il vetro in alto, che si ruppe con gran fracasso, e volò fuori, andando a cadere nel giardino di aranci che confinava con la palestra della scuola.
Le compagne restarono a bocca aperta.
Negli ultimi giorni avevano seguito con crescente meraviglia la metamorfosi di Elisa.
Neppure Sveva Lopez nei suoi momenti peggiori ne aveva fatto tante, e non una dopo l’altra.
Ma ancor più sconcertante era il fatto che la maestra si limitasse ad abbaiare e a minacciare punizioni, senza prendere alcun provvedimento.
Al momento del lancio della scarpa la maestra aveva la testa china sul libro di lettura. – Cos’è stato?- sussultò al rumore del vetro infranto. Qualche ragazzaccio di strada ha lanciato un sasso dentro alla classe?

-E’ stata Maffei! disse Sveva, tutta contenta di poter fare la spia. E’ impazzita e si è messa a lanciare scarpe per aria.
-Lopez, non dire assurdità.
-Ma guardi i vetri! Sono caduti tutti fuori. E poi Elisa ha una scarpa sola.
La signora Sforza non poté negare l’evidenza.
-Cos’è successo, Maffei? Elisa aveva una fifa blu, ma ormai doveva andare avanti.
-Avevo un sassolino che mi faceva male. Così ho dimenato il piede e la scarpa mi è scivolata via.
Era una spiegazione assurda.
Come poteva una scarpa spiccare il volo dal pavimento e colpire il vetro così in alto? Ma la maestra la prese per buona.
-Sei un po’ troppo irrequieta in questi ultimi giorni, Maffei. Ti senti poco bene? Sei sicura di non stare incubando il morbillo?

-L’ho già fatto l’anno scorso- disse Elisa.
Poi, senza chiedere il permesso, si diresse verso la porta.
-E adesso dove vai? A recuperare la mia scarpa. Ma non uscire così! Prenderai un raffreddore. Fatti almeno prestare un paio di scarpe da qualche tua compagna. Chi è che porta il tuo numero?

Quando Elisa fu uscita, la maestra si rivolse alla classe e disse severamente: – Non crediate che questa bella prodezza rimanga impunita. Mi rendo conto che ultimamente la vostra compagna si sente poco bene. E poi occorre ricordarsi sempre che è un’orfanella. Ma in questa classe bisogna osservare la disciplina.
Tu, Agata, cos’hai da ridacchiare? Vuoi due colpi di bacchetta? No? Per ora ti darò una nota di biasimo sul registro.
Ma nonostante le minacce, per Elisa non ci fu nessuna conseguenza.
Anzi, il padrone del giardino dove era atterrata la scarpa rise molto al suo racconto e le regalò una borsa piena di dolcissime arance vaniglia.
Più il tempo passava, più l’impresa sembrava disperata.
Da un lato Elisa proprio non aveva la stoffa della lazzarona.
Dall’altro la maestra sembrava voler giustificare e scusare a tutti i costi ogni sua cattiveria.

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Risultati immagini per ascolta il tuo cuore pitzorno

Tratto da “Ascolta il mio cuore” di Bianca Pitzorno, Mondadori 

Quando era piccola, Prisca si era sempre rifiutata di imparare a nuotare con la testa sott’acqua, come pretendevano suo padre e suo nonno.
Era convinta che il mare, attraverso i buchi delle orecchie, potesse entrarle nel cervello.
E un cervello annacquato, si sa, funziona male.
Forse che il nonno, quando lei non capiva al volo qualcosa, non le diceva spazientito: – Ma ti è andato in brodo il cervello?

Per lo stesso motivo Prisca non voleva mai tuffarsi dalla barca o dal molo, come facevano suo fratello Gabriele e gli altri bambini.
E, naturalmente, c’era sempre qualche dispettoso che mentre lei nuotava tranquilla con il mento sollevato, le arrivava zitto zitto alle spalle, le metteva una mano sulla testa e la cacciava sotto.
Quanti pianti si era fatta! Di paura, ma soprattutto di rabbia impotente.
Tanto più che quando andava a protestare dalla madre sotto l’ombrellone, quella, invece di difenderla o consolarla, la sgridava: – Non sai stare agli scherzi. Sei troppo permalosa. In fondo cosa ti hanno fatto? Finirai per diventare lo zimbello della spiaggia.
Poi era cresciuta e aveva capito che l’acqua non può assolutamente entrare nel cervello.
Né attraverso le orecchie, né attraverso gli altri buchi che abbiamo in faccia.
Glielo aveva spiegato, mostrandole anche un disegno scientifico su un libro di medicina, il dottor Maffei, zio della sua amica Elisa.

– Dalla bocca e dal naso l’acqua potrebbe entrarti semmai nei polmoni, oppure nello stomaco – le aveva spiegato – ma nel cervello assolutamente no.

Era un pensiero rassicurante.
Perciò adesso che aveva nove anni Prisca si tuffava con la bocca serrata, stringendosi il naso con due dita, e aveva imparato a nuotare con la testa mezza sotto.
Sapeva fare anche “il morto” in modo perfetto, completamente immersa: non solo le orecchie, ma persino gli occhi, aperti, anche se bruciavano un po’.
Fuori restavano solo le narici, un millimetro appena sopra il pelo dell’acqua.
Questo l’aveva imparato da Dinosaura, la quale, essendo una tartaruga di terra (nome scientifico: “Testudo graeca”) non aveva le branchie ma i polmoni, e quindi doveva per forza respirare aria.
Era una tartaruga di terra, ma quando Prisca la portava alla spiaggia e la metteva sotto l’ombrellone, Dinosaura la seguiva in acqua e se ne stava a galleggiare vicino alla riva, col guscio giallo e marrone totalmente immerso e solo le narici fuori, muovendo impercettibilmente le zampe.
Naturalmente non faceva “il morto”.
E’ noto a tutti che le tartarughe detestano stare a pancia all’aria e che se capita di incontrarne una in quella posizione bisogna farle subito il favore di ribaltarla in modo che possa camminare.
Una volta che Dinosaura faceva il bagno a quel modo, la corrente l’aveva portata al largo, lontanissima, fino a farla sparire.
Prisca aveva pianto e pianto, perché pensava di averla perduta per sempre.
Invece l’indomani, alle sette del mattino, un agente della Finanza era venuto a bussare a casa Puntoni.
Riportava Dinosaura, e Ines, ch’era andata ad aprire, riferì che il giovanotto non sapeva se ridere o essere arrabbiato, perché la tartaruga, dalla gran paura di trovarsi sballottata in mani estranee, era stata presa da un attacco di diarrea e gli aveva fatto una gran cacca biancoverdastra sui pantaloni della divisa.
Alle tartarughe succede sempre così quando si emozionano: Prisca ed Elisa lo avevano sperimentato a loro spese. Dove stava di casa Dinosaura il finanziere lo aveva capito dalla targa, che era anche il motivo per cui la tartaruga era stata salvata dalle acque e non era finita in Spagna.
Verso le cinque di mattina i finanzieri erano al largo sulla motovedetta in cerca di contrabbandieri, quando avevano visto nell’acqua la tartaruga che nuotava sforzandosi di avvicinarsi alla riva, ma la corrente la spingeva indietro, verso il mare aperto.
Si erano accorti subito che non si trattava di una tartaruga qualunque, perché aveva la targa come un’automobile e, pieni di curiosità, l’avevano ripescata con la reticella dei pesci.
Quella della targa era stata una brillante idea di Ines, la cameriera più giovane di casa Puntoni.
Ines si era accorta che lì al mare, poiché la casa che prendevano tutti gli anni in affitto era al pianterreno, Dinosaura spesso e volentieri usciva e se ne andava a spasso per le vie del paese, col rischio che qualcuno, credendola una tartaruga selvatica, la prendesse e se la portasse via.
Allora Ines aveva preso un rotolo di cerotto rosa, del tipo più robusto, ne aveva ritagliato un rettangolo e glielo aveva applicato sulla parte posteriore del guscio.
Prima ci aveva scritto sopra Dinosaura Puntoni.
Lungomare Cristoforo Colombo 29.
Di fianco al bar Gino.
Lo aveva scritto con la matita copiativa, premendo forte.
-Così anche se si bagna non sbiadisce – aveva detto.
Prisca era piena d’ammirazione per il senso pratico di Ines.
La mamma e Gabriele invece si erano fatti mille risate e le avevano trattate da sceme.

– Una tartaruga targata come un’automobile! Chi ha mai visto un’idiozia simile?!

E invece ecco che, proprio grazie alla targa, il finanziere aveva capito che Dinosaura faceva parte della famiglia Puntoni e l’aveva riportata a casa.

TEST DI COMPRENSIONE

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 FU COSÌ CHE LA TERRA SI SALVÒ

Tanto tempo fa, un popolo di extraterrestri decise di invadere la Terra e assoggettare gli umani. Erano esseri informi che si muovevano rotolando su se stessi, forniti di intelligenza da computer che li faceva pensare tutti allo stesso modo. Erano molto curiosi di conoscere gli esseri umani e convinti che questi si sarebbero arresi a loro, uniformandosi alla nuova vita con entusiasmo. Prima di atterrare, il capo pensò che sarebbe stato opportuno mandare in avanscoperta quattro ambasciatori perché cominciassero a scoprire la realtà con cui avrebbero avuto a che fare e illustrassero agli umani il futuro che li attendeva. Gli ambasciatori svolsero, come sempre, il loro compito in modo ineccepibile e, tornati, si presentarono al capo per la relazione. – Maestà – dissero – gli umani che abbiamo incontrato sono felici di unirsi a noi, ma pongono tutti una condizione. – E quale? – chiese il capo – Vogliono restare essere umani – risposero – Che significa restare umani? – insisté il capo – Significa tante cose – dissero; e uno spiegò – Il primo umano che abbiamo incontrato era una filosofa; ci disse che poiché gli esseri umani hanno la testa, vogliono essere liberi di pensare ognuno con la propria ed esporre agli altri i propri pensieri. – Interessante – commentò il capo – e gli altri? – Il secondo era un meccanico e stava sistemando un motore. Ci disse che poiché gli uomini hanno le mani, vogliono poter lavorare e compiere il lavoro che più gli si addice. “A ciascuno il suo lavorò” specificò. – Hanno delle pretese questi esseri umani – disse il capo. – E non è finita – aggiunse un altro – Il terzo che abbiamo incontrato si trovava in una stazione ferroviaria ed era carico di bagagli. Ci disse che, poiché gli uomini hanno i piedi, vogliono avere il diritto di andare da qualche parte e poi tornare indietro, uscire e rientrare, come desiderano. – Che strano – mormorò il capo – strano, ma interessante. – L’ultimo – aggiunse un terzo – era un ragazzo; ci disse che poiché gli uomini hanno un cuore vogliono essere liberi di amare, di essere allegri o malinconici, di rimpiangere, desiderare, arrabbiarsi o affezionarsi. -E come si può fare tutto questo? – chiese il capo. – Vogliono una dichiarazione che contenga l’elenco di quello che possono fare; li chiamano i loro DIRITTI. – È difficile capirli – disse il capo – questi personaggi sembrano tutti diversi; siete sicuri che fossero tutti esseri umani? – Certo! – risposero – Tutti sembrano diversi fra loro, ma tutti hanno la testa, il cuore, le mani, i piedi: sono tutti umani. – Se è così – sentenziò il capo, dopo aver riflettuto – se per restare essere umani hanno bisogno di tutte queste cose, l’affare non fa per noi: sarà meglio perlustrare un altro pianeta. E fu così che la Terra si salvò.

Dopo aver letto il brano rispondi alle seguenti domande:

1. Quali diritti vogliono avere gli esseri umani del racconto per poter restare tali? 2. Quale altro diritto aggiungeresti tu a quelli elencati? 3. Secondo te questi diritti spettano a tutti gli esseri umani o solo a qualche categoria o gruppo? Perché? 4. Se il capo degli extraterrestri avesse deciso di occupare ugualmente la Terra, senza tener conto delle richieste, cosa sarebbe successo? Modifica tu la parte finale del racconto

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Leggi il testo:

L’ORSO BRUNO

RISPONDI ALLE DOMANDE

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Risultato immagini per balene polipi epesce spada disegni

N.B. SCEGLIERE SOTTO L’ESERCIZIO CON TESTO

IN STAMPATO MINUSCOLO O MAIUSCOLO

AIUTO!

Oggi, in mare, Balenottera Mangiona ha un forte dolore di stomaco. Incontra Pesce Spada gli chiede:- Mi potresti aiutare?

Pesce Spada risponde:- Dove senti il dolore? Taglierò via quel pezzo con la mia sega!

Balenottera ha paura:- Il dolore è proprio qua.

-Apri la bocca- dice il dottor Pesce Martello.

Balenottera apre la bocca ma non si vede nulla. Bisogna entrare nel suo stomaco.

Ci pensa Pesce Luna: con la sua luce rischiara l’interno di Balenottera.

Pesce Pilota e Pesce Ago allora esplorano lo stomaco di Balenottera: – Quanti barattoli ci sono qui dentro! – borbotta Pesce Pilota.

-Balenottera Mangiona non fa attenzione a quello che ingoia.

-Qui c’è troppa immondizia! – dice Pesce Ago. 

-Ecco che cosa ha provocato la ferita: il coperchio tagliente di una scatola di pelati! – esclama Pesce Pilota.

Pesce Ago riduce la ferita.

Intanto Polipo introduce i suoi tentacoli all’interno di Balenottera e tira fuori tutto quello che Balenottera Mangiona ha ingoiato.

Ora Balenottera, grazie ai suoi amici, si sente meglio.

RISPONDI ALLE DOMANDE (STAMPATO MINUSCOLO)
RISPONDI ALLE DOMANDE (STAMPATO MAIUSCOLO)

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COCCODRILLO INNAMORATO

Da diversi giorni Coccodrillo gira in qua e in là, in su e in giù, senza darsi pace. A volte sente tanto freddo, a volte ha fin troppo caldo, a volte è estremamente abbattuto e triste, a volte, invece, è talmente felice che abbraccerebbe il mondo intero per la gioia. Il motivo è molto semplice: Coccodrillo è innamorato! Il problema di Coccodrillo è che si è innamorato di Giraffa. E Giraffa è molto, molto alta. Il fatto è che ogni volta che lui prova a donare a Giraffa il suo splendido sorriso, lei non lo vede!

“Mi arrampicherò sul suo albero preferito e da lì le regalerò un paio di foglie da mangiare!” pensò Coccodrillo.

Ma proprio quel giorno Giraffa aveva un tremendo torcicollo ed era senza appetito. Non degnò il suo albero preferito, e di conseguenza neanche Coccodrillo, del benché minimo sguardo. Ma Coccodrillo non si diede per vinto.

“Suonerò una canzone d’amore, così lei si affaccerà sicuramente alla mia porta”.

 Ma proprio quel giorno Giraffa ascoltava musica dalla sua radiolina portatile, e la canzone d’amore di Coccodrillo rimase completamente inascoltata.

“Ci sono!” pensò Coccodrillo “La prenderò al volo con un laccio e la tirerò verso il basso. Così mi vedrà”.

Ma quando lo fece, Giraffa si spaventò a tal punto che diede un brutto strattone all’indietro, spedendo direttamente Coccodrillo all’ospedale. Quando Coccodrillo uscì dall’ospedale aveva perso ogni speranza. Non sarebbe mai riuscito a donare a Giraffa il suo splendido sorriso. Triste e affranto, si avviò verso casa. Ma improvvisamente… un tonfo, un botto, un rumore secco e Coccodrillo cadde a terra. E quando ritornò in sé, vide Giraffa sdraiata proprio di fronte a lui. Si erano scontrati!

“Pe…, perd…, perdonami tanto!” disse Giraffa. “Non ti ho proprio visto”. Si sedettero insieme e quando si guardarono bene l’un l’altra, risero talmente tanto che i loro cuori si riscaldarono dall’allegria. Allora Coccodrillo disse: “Che fortuna che non mi hai visto!”

“Sì” rispose Giraffa “altrimenti non avrei mai potuto vedere il tuo splendido sorriso”.

RISPONDI ALLE DOMANDE 

Prepariamoci all’Invalsi-LETTURA E COMPRENSIONE
 Italiano classe seconda

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Risultato immagini per cucciolo di cane e bambino

UN BAMBINO DA COMPAGNIA!

-Posso ricevere un bambino per il mio compleanno?- chiese Rex.

-No- disse il papà, – nutrirlo ci costerebbe un occhio della testa. E poi, i bambini puzzano.

-Non è vero. Bisogna solo curarli come si deve – disse Rex.

-So già che alla fine toccherà a me prendermi cura di lui – disse il papà.

-La risposta è no!

Rex allora andò dallo zio Fido.

-I bambini sono dei pidocchiosi insopportabili – disse lo zio.

-E a volte sono anche cattivi; e poi è praticamente impossibile addestrarli – aggiunse la zia Sheba.

-Perché non ti accontenti di un osso nuovo, come tutti gli altri? – ringhiò il nonno. -Sono terribili, i bambini di oggi!

-Già – disse la nonna, da piccoli sono ancora carini, ma poi, quando crescono, prendono delle sgradevoli abitudini.

-Come mangiare seduti a tavola, per esempio – sussurrò il nonno – e cose del genere!

“Questi sono pregiudizi belli e buoni”  pensò Rex, e se ne andò mogio mogio al parco, dove si sedette in cima alla collina.

Giù in basso i cani portavano a spasso le loro persone.

“Non è giusto!” pensò Rex. “Perché quei cani possono avere una persona da compagnia e io no?”

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La cangurina Giovanna

In una sconfinata pianura dell’Australia, vicino a un grande bosco di eucalipti, viveva Giovanna, una piccola cangurina con occhi vispi e con una grande passione: quella di raccontare le sue innumerevoli avventure. Che spesso, però, non erano del tutto vere. E infatti qualcuno cominciò a dubitare che tutte le storie di Giovanna fossero in realtà solo delle grandi fandonie, o bugie che dir si voglia. E i suoi amici erano arrivati al punto di non crederle proprio più. E fu così che la cangurina si ritrovò sola, evitata da tutti. Giovanna divenne molto triste. Lei pensava che raccontando bugie tutti sarebbero rimasti affascinati dalle sue imprese. Ed era quindi convinta che più bugie diceva più amici avrebbe avuto. Ma si sbagliava.

Una sera Giovanna incontrò suo cugino Gastone, un timido Koala. Giovanna, come al solito, iniziò a raccontare anche a Gastone alcune delle sue incredibili storie.

Gastone finse di credere a ciò che Giovanna diceva, poi a un tratto esclamò:- Certo Giovanna che hai una bella fantasia! Ce l’avessi io!

– Ma… come? Non mi credi?- disse Giovanna, sbalordita.

-Vedi Giovanna, se tu racconti sempre e solo bugie i tuoi amici cominceranno a pensare che tu li vuoi prendere in giro. E non è bello prendere in giro gli amici. Perché prima o poi ti abbandonano. Sai Giovanna – continuò Gastone – esistono tanti modi per farsi apprezzare dagli amici, come essere generosi, disponibili, o, più semplicemente, dimostrando di aver voglia di stare con loro.

Improvvisamente Giovanna si era resa conto di quanto fosse stata stupida a comportarsi in quel modo e provò una grande vergogna. – Hai ragione Gastone. Come posso rimediare adesso? I miei amici non mi vorranno più vedere! – disse Giovanna.

– Basterà che tu chieda loro scusa e cominci a comportarti per quello che sei realmente e vedrai che tutto tornerà come prima! – rispose Gastone.

Giovanna mise in pratica i consigli di Gastone e, in effetti, tutto si aggiustò in pochissimo tempo. Ancora oggi Giovanna racconta ai suoi piccoli cangurini le fantastiche avventure di un canguro  dai poteri eccezionali… ma che soprattutto non diceva mai bugie!

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