Sicché quando mia madre mi chiese di andare con lei a vendere la casa non ebbi problemi a dirle di sì. Lei mise in chiaro che non aveva abbastanza denaro e per orgoglio le dissi che mi sarei pagato le mie spese. Al giornale dove lavoravo non avrei potuto risolvere la situazione. Mi pagavano tre pesos per ogni pezzo e quattro per un editoriale quando mancava qualcuno degli editorialisti fissi, ma mi bastavano appena. Cercai invano di chiedere un prestito, perché il direttore mi ricordò che il mio debito originale ammontava a oltre cinquanta pesos. Quel pomeriggio commisi un abuso di cui nessuno dei miei amici sarebbe stato capace. All’uscita dal caffè Colombia, vicino alla libreria, mi incamminai con don Ramón Vinyes, il vecchio maestro e libraio catalano, e gli chiesi in prestito dieci pesos. Ne aveva solo sei.
Né mia madre né io avremmo neppure potuto immaginare che quell’innocente passeggiata di soli due giorni sarebbe stata così determinante per me, che la più lunga e diligente delle vite non mi basterebbe per finire di raccontarla.
Adesso, con oltre settantacinque anni alle mie spalle, so che fu la decisione più importante fra quante dovetti prendere nella mia carriera di scrittore. Ossia, in tutta la mia vita.
Fino all’adolescenza, la memoria ha più interesse per il futuro che per il passato, sicché i miei ricordi del paese non erano ancora stati idealizzati dalla nostalgia. Lo ricordavo così com’era: un buon posto per viverci, dove tutti si conoscevano, in riva a un fiume dalle acque diafane che si precipitavano lungo un letto di pietre polite, bianche ed enormi come uova preistoriche. All’imbrunire, soprattutto in dicembre, quando passavano le piogge e l’aria diventava di diamante, la Sierra Nevada di Santa Marta sembrava avvicinarsi con i suoi picchi bianchi fino alle piantagioni di banani della riva opposta. Da lì si vedevano gli indios arhuacos che correvano in file da formiche sui cornicioni della sierra, con i loro sacchi di zenzero sulla schiena e masticando palle di coca per distrarsi la vita. Noi bambini nutrivamo allora l’illusione di organizzare battaglie con le nevi perpetue e giocare alla guerra nelle strade divampanti. Il caldo era così inverosimile, soprattutto durante la siesta, che gli adulti se ne lamentavano come se ogni giorno fosse stato una sorpresa.
Fin dalla mia nascita avevo sentito ripetere senza tregua che i binari della ferrovia e gli edifici della United Fruit Company erano stati installati di notte, perché di giorno era impossibile afferrare i pezzi di ferro riscaldati dal sole. L’unico modo per arrivare a Aracataca da Barranquilla era una sgangherata lancia a motore lungo un canale scavato a braccia di schiavi durante la Colonia, e poi attraverso una vasta palude dalle acque torbide e desolate, fino al misterioso villaggio di Ciénaga. Lì si prendeva il treno normale che alle sue origini era stato il migliore del paese, e con cui si faceva il tragitto conclusivo attraverso le immense piantagioni di banani, con molte fermate oziose in abitati polverosi e ardenti, e stazioni solitarie. Questo fu il percorso che mia madre e io intraprendemmo alle sette di sera di sabato 18 febbraio 1950, vigilia di carnevale, sotto un acquazzone diluviale fuori stagione e con trentadue pesos complessivi che ci sarebbero bastati appena per tornare se la casa non fosse stata venduta alle condizioni previste. […]
Era nata in una casa modesta, ma crebbe nello splendore effimero della compagnia bananiera, di cui le rimase almeno una buona educazione da bambina ricca al Collegio della Presentazione della Santissima Vergine, a Santa Marta. Durante le vacanze di Natale ricamava sul tombolo con le sue amiche, suonava il clavicordio alle feste di beneficenza e partecipava con una zia guardiana ai balli più depurati della timorata aristocrazia locale, ma nessuno aveva mai saputo che avesse un fidanzato quando si sposò contro la volontà dei genitori col telegrafista del paese. Le sue virtù più note fin d’allora erano il senso dell’umorismo e la salute di ferro che le insidie dell’avversità non sarebbero riuscite a vincere nella sua lunga vita. Ma quella più sorprendente, e già allora la meno sospettabile, era il talento squisito con cui riusciva a nascondere la tremenda forza del suo carattere: un Leone perfetto. Le era stato così possibile instaurare un potere matriarcale il cui dominio si estendeva fino ai parenti più remoti nei luoghi meno immaginabili, come un sistema planetario di cui lei disponeva dalla sua cucina, con voce tenue e senza quasi batter ciglio, mentre faceva bollire la marmitta dei fagioli. […]
Avevo abbandonato l’università l’anno prima, con l’illusione temeraria di vivere di giornalismo e letteratura senza bisogno di impararli, incoraggiato da una frase che credo avessi letto in Bernard Shaw: “Fin da piccolo dovetti interrompere la mia educazione per andare a scuola”. Non mi ero sentito di discuterne con nessuno, perché capivo, senza poterlo spiegare, che le mie ragioni potevano essere valide solo per me stesso. Cercar di convincere i miei genitori di una simile follia quando avevano riposto in me tante speranze e avevano speso tanto denaro che non avevano, era tempo sprecato. Soprattutto mio padre, che mi avrebbe perdonato qualsiasi cosa, meno che non appendessi alla parete un titolo accademico che lui non era riuscito ad avere. I rapporti si erano interrotti. Quasi un anno dopo progettavo sempre di andarlo a trovare per spiegargli le mie ragioni, quando arrivò mia madre a chiedermi di accompagnarla a vendere la casa. Tuttavia, lei non accennò al problema fin dopo la mezzanotte, sulla lancia, quando sentì come una rivelazione sovrannaturale che aveva infine trovato il momento propizio per dirmi quello che di certo era il motivo reale del suo viaggio, e cominciò col modo e col tono e con le parole millimetriche che dovevano essere maturate nella solitudine delle sue insonnie assai prima che le pronunciasse.
«Tuo papà è molto triste» disse.
Tratto da "Vivere per raccontarla" di Gabriel García Márquez