“STORIA DELLE MIE STORIE” DI BIANCA PITZORNO
LEGGI IL TESTO, POI RISPONDI ALLE DOMANDE E INFINE FAI IL CRUCIVERBA DI PAROLE.
Una bambina molto arrabbiata
I libri hanno avuto nella mia infanzia un ruolo così importante che, se cerco di immaginarli senza di loro, i miei primi anni si riducono a ben poca cosa. Eppure la mia vita non era quella di una piccola ammalata confinata in un letto, alla quale solo le parole e le immagini stampate (in assenza della televisione che ancora non c’era) potevano fornire notizie ed esperienza della realtà. La mia vita era piena di cose ed esperienze concrete, di rapporti affettivi intensi, di sensazioni fisiche di emozioni… Eppure niente di tutto questo aveva per ma un senso, un valore, un punto di riferimento, se non in rapporto ai libri che contemporaneamente andavo leggendo e rileggendo. Esistevo, ma senza i libri non avrei saputo di esistere. […]
Devo a loro la mia sete di giustizia e i due sentimenti forti che hanno sempre guidato (e tormentato) la mia vita: la rabbia e l’indignazione. Rabbia per le ingiustizie che io stessa pativo, indignazione per le ingiustizie che non mi riguardavano, ma che vedevo patire ad altri.
Gli operatori di ingiustizia erano quelli più forti fisicamente, quelli che avevano potere su di noi, e dunque qualche volta i ragazzi più grandi, ma nella maggior parte dei casi degli adulti.
Se ripenso a me stessa in quegli anni, mi torna subito in mente l’acuta consapevolezza della mia poca forza fisica in confronto a quella dei giganti da cui dipendevo per ogni cosa e il fortissimo, bruciante sentimento di impotenza. Non perché i fatti della mia vita fossero particolarmente infelici, o gli adulti che mi circondavano fossero degli aguzzini, che anzi sono cresciuta in una situazione privilegiata sia dal punto di vista economico che da quello affettivo. Ma perché, anche e soprattutto grazie ai libri, ero consapevole del mio valore (e di quello dei miei piccoli coetanei) come persona, come individuo; e dalla incolmabile disparità di forza fisica, emotiva, economica, che ci metteva inesorabilmente alla mercé dei grandi.
I quali non erano tenuti a rispettare nei nostri confronti alcuna legge, ma agivano, anche i meglio intenzionati, secondo il loro arbitrio e capriccio.
“Perché?”
“Perché sì!” “Cosa credi? Qui comando io!” erano le frasi che governavano i nostri rapporti.
E poi, fossero almeno stati conseguenti. Invece tutti gli adulti che conoscevo, senza esclusione, affermavano a voce un sistema di norme e di valori dei quali esigevano da noi il rispetto, ma erano i primi a violarli, quando di nascosto e quando con allegra noncuranza.
Ricordo la mia indignazione di fronte alle promesse non mantenute, ai patti infranti con una risata. Alla raccomandazione: “Non bisogna dire bugie” subito seguita, allo squillo fastidioso del telefono, dall’invito:”Rispondi tu e dì che non ci sono.”
Per non parlare dei poveri. Quante belle prediche! Siamo tutti fratelli”; “Gli uomini sono tutti uguali”; “I più forti devono proteggere i più deboli.” Però sembrava normale che nei paesi i figli dei pastori andassero in campagna col gregge oppure, se femmine, a servizio prima dei dieci anni; che le cameriere dormissero su una branda in cucina e non potessero lavarsi nel nostro bagno; che i mendicanti non venissero invitati a sedersi a tavola ma ottenessero al massimo uno schifoso miscuglio di avanzi versato con condiscendenza nel barattolo col manico di fil di ferro che si portavano dietro; che a scuola i bambini poveri frequentassero classi diverse dalle nostre e che, se per caso qualcuno di loro capitava per sbaglio con noi, ci fosse vietato invitarli a casa per la merenda.
Era fratellanza questa? Era, quello dei grandi, il modello a cui dovevamo tendere? io non volevo diventare come loro. E se crescere voleva dire somigliare agli adulti che mi vedevo attorno, io non volevo crescere. […] Poi naturalmente, visto che uno non può fare a meno di crescere, come controbatteva Alice (ma io, potendo, avrei fatto la stessa scelta di Peter Pan), mi rassegnai. Sempre però rimpiangendo “l’età d’oro” della mia vita. Non perché allora fossi felice. Ma perché ero integra, fiduciosa nella forza degli ideali, piene di speranza che il mondo, anche grazie a me, potesse in un giorno non lontano cambiare.